Le opere di Coady sono pillole tridimensionali incastonate e incorniciate. Queste capsule, lucide, glitterate, seducenti come caramelle, sono l’incarnazione plastica di un tema centrale nella cultura contemporanea: il fragile equilibrio tra cura e illusione, tra bisogno autentico e dipendenza emotiva.
Attraverso queste sculture, Coady esplora il rapporto tra cervello e psicopatologia, tra umore e sostanza, tra terapia e desiderio di fuga. Ogni pillola diventa simbolo di una possibile via d’uscita: da un lato rappresenta il tentativo di gestire l’ansia, la depressione, lo stress — dall’altro si trasforma in portale verso un Eden sintetico, un rifugio lucente dove la chimica promette benessere, felicità, controllo.
Tuttavia, Coady non si limita a celebrare il farmaco. Anzi, svela con ironia e profondità la contraddizione dell’Occidente medico-centrico, dove spesso la cura si riduce a un palliativo. Le sue pillole sono placebo che mitigano il dolore ma non lo curano, che coprono i sintomi ma non risolvono le cause. Incorniciate come reliquie pop, diventano specchi delle nostre paure collettive, icone del desiderio di controllo, ma anche totem della nostra vulnerabilità.
In definitiva, le sue opere mettono in scena una critica tanto affettuosa quanto spietata del nostro rapporto con la mente, con il corpo e con la promessa sempre rinviata di una felicità chimicamente garantita.